La seconda chiesa - Parrocchia di San Marco Ev

aggiornato il 24/02/2024
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La seconda chiesa

La storia





Facciata di una chiesa veneta del XV sec.
in stile romanico-gotico.
E’ possibile che la seconda chiesa
di Ponte di Brenta somigliasse a questa.


LA SECONDA CHIESA

Nei primi decenni del Quattrocento, gli abitanti di Ponte di Brenta si costruirono, quasi certamente sullo stesso posto della prima, una nuova chiesa di stile romanico o tardo gotico come le chiese dell’epoca.
E’ presumibile che la prima chiesa non bastasse più in quanto la popolazione, dapprima costituita principalmente da poche famiglie di barcaioli, era aumentata col passare del tempo, grazie soprattutto all’apporto di famiglie contadine.
E probabilmente la sostituirono anche perché Ponte di Brenta stava per diventare o era già diventato un villaggio di una certa importanza a motivo dell’ottenimento del fonte battesimale, vale a dire del diritto di battezzare, che rendeva la parrocchia autonoma e indipendente da quella di Noventa.
L’anno esatto in cui sia stata concessa tale rilevante facoltà non lo conosciamo, ma nel 1453 la nostra era sicuramente già chiesa parrocchiale, anche se con le dovute riverenze verso la Pieve di Torre che, lo rammentiamo, era la Pieve-matrice della zona.
La direzione del nuovo edificio sacro era esattamente come quella dell’attuale, con l’abside rivolta all’incirca verso Sud-S/E e la facciata verso Nord-N/O e ciò è dimostrato dall’abside rimasta intatta anche dopo il generale rifacimento operato nel Settecento.
Le dimensioni ci sono fornite da un manoscritto del 1605:
“La chiesa di Ponte di Brenta è selegiata e tavelata longa 72 (piedi) larga 30 con cinque altari e calici, uno pergamo (pulpito), horologio (sul campanile) tre campane e per anime 600  v’è rettore pré Giovanni Maria Susi (altrove non Susi ma Duci) modenese che non ha quartese ma per le case particolari scode (riscuote) ducati 200 e vi è comodo oltre alli altri nobili venetiani conte Bonzanino cittadino padovano e a Mortise Giovanni Zabarella”.
La descrizione va illustrata:
“selegiata” vuol dire che la chiesa aveva il pavimento in cotto, probabilmente a spina di pesce, al contrario di molte altre dell’epoca che avevano invece il pavimento in terra battuta;
“tavelata” significa che il tetto era sostenuto da travature visibili in legno (capriate). Classico stile di costruzione del romanico;
il piede lineare padovano era pari a metri 0,357.394 e quindi la seconda chiesa era, arrotondando di qualche centimetro, lunga mt. 25,70 e larga mt. 10,70;
“quartese” (da quarto) onere che corrisponde alla quarantesima parte dei frutti raccolti;
“comodo” è il commendatario che godeva delle rendite di Ponte di Brenta.
Un documento del 1572 descrive la chiesa: con tre porte di cui la principale coperta all’esterno da un portico. Due sole finestre e tutte e due rivolte a mezzogiorno ed un occhio nella facciata. Il fonte battesimale situato a sinistra della porta maggiore, presso la parete settentrionale.
A sinistra dell’altar maggiore c’era la sacrestia “testudinata” (con tetto a quattro spioventi). Tale ambiente in una descrizione di metà Seicento, è definito fatto a mezzodì, comodo, con soffitto a volto e con una sola finestra.
Di fronte alla chiesa c’era il sagrato con il cimitero rinchiuso da muro. La casa presbiteriale (canonica) era ritenuta comoda e vicina alla chiesa.
L’interno oltre che dall’altar maggiore, situato sotto una volta dipinta, era arricchito da altri quattro altari: due a fianco del maggiore, uno a destra (altare della Madonna) e uno a sinistra (altare di S. Daniele), collocati non nel presbiterio ma a fianco delle balaustre, e due laterali a metà chiesa: altare dei Ss. Rocco e Sebastiano e altare di Santa Lucia, diventati all’inizio del XVIII sec. gli altari della Madonna e di San Giuseppe per opera del parroco don Andrea Bonetti.
Sempre nella testimonianza del 1572 si precisa che “la chiesa era in buono stato e adornata di molte pitture, affreschi e pale d’altare”. Il parroco don Giovanni Bartolomietto nel 1655 le descrive così:
“E’ dipinto tutto il volto et la Capella (del Santissimo), e fu dipinta l’anno 1525 da Pré Zaccaria de Lauregiis (parroco) e Nicolò Fanton (benefattore): dei beni (con i beni) della Fraglia di S. Spirito di Roma in Sassia siccome dal medesimo Pré Zaccaria fu fatte le colonette di pietra di Nanto, et la sepoltura per i Preti del 1540 …(omissis)… E’ decorato questo Altare (maggiore) d’un’assai bella Pala e Tabernacolo. La Pala fu fatta l’anno 1586 da Missier Gerolamo Canella di legno, indorata l’anno 1587 da Missier Francesco indorator da Venezia et depenta con doi belle figure per esser dedicato a S. Marco et a S. Daniele da Missier Luca Meolo. Il Tabernacolo fu fatto l’anno 1586 …(omissis) … Ha un bellissimo pergamo (pulpito) tutto di nogara (noce), anco il coperto, fatto fare da me et Ms. Paulo Veludo la spesa metà per uno del 1643. Ha doi Confessionarii un nuovo, l’altro abbellito da me: come è ornata da un bellissimo Battisterio, e cinque altari”.
Del tabernacolo, del pulpito, dei confessionali se n’è persa traccia. Del battistero si è preservata solo la colonna di sostegno della vasca attuale. Mentre l’altar maggiore e i due altari posti ai suoi fianchi, c’è da ritenere che si saranno mantenuti più o meno originali fino a metà ‘700 per poi essere demoliti insieme alla chiesa.
Anche della pala del Meolo (pittore peraltro sconosciuto) non si conosce la fine. Poiché è citata come esistente almeno fino al 1655, quel che se ne può dedurre è che dopo di allora, in quale momento non è dato a sapere, sia stata sostituita dalla pala che vediamo attualmente, dipinta nel 1565 o appena dopo dal veneziano Giovanni Parrasio Michieli, vissuto fino al 1578.
Però c’è una incongruenza di ordine temporale: come s’è detto la tela del Michieli è del 1565, dunque bisognerebbe ritenere che la parrocchia abbia ordinato e acquistato il lavoro almeno una novantina d’anni prima (?) della sua esposizione nella nostra chiesa che, stando al Cronicon, è avvenuta in un momento imprecisato sicuramente dopo il 1655. Ma la congettura appare subito poco valida, fra l’altro anche perché se il dipinto già esisteva, il Bortolomietto certamente lo avrebbe citato nel suo inventario.
Un’altra ipotesi, sempre se le date sono esatte, è che l’opera sia stata commissionata e utilizzata da altri e successivamente da noi acquistata ben dopo il 1655 per sostituire la pala del Meolo.
Da supporre  anche il fatto, considerato che il Meolo è un personaggio del tutto sconosciuto (forse inesistente?), che don Bortolomietto, estensore del testo, si sia male informato sui nomi e che quindi dove è scritto Meolo potrebbe doversi leggere Michieli, trattandosi allora non di due ma di un unico dipinto (a onor del vero però il Bortolomietto, descrivendo la tela, come s’è visto cita raffigurati solo S. Marco e S. Daniele, mentre il Michieli oltre a questi due personaggi ha dipinto anche la Madonna col Bambino!).
Ma, naturalmente, tutte queste sono solo supposizioni …
Il campanile è lo stesso di quello attuale. La sua costruzione è stata ultimata quasi sicuramente nel 1437 con probabile entrata in funzione l’8 Ottobre dello stesso anno, come è possibile dedurre dalla lapide posta sulla base del campanile stesso. La torre è costruita su due piani oltre al basamento e la cella campanaria.
E’ di stile romanico-gotico con una bellissima cuspide conica in cotto, poggiata su un tamburo cilindrico in laterizio, abbellito con un ordine di archetti ciechi. La sottostante cella campanaria è modellata nella cornice da quattro bifore, sostenute da quattro colonne di trachite, appoggiate su capitelli di vario intaglio, uno differente dall’altro. Sopra la cella sono collocati 4 pilastrini, uno per ciascun angolo (due di questi dovrebbero essere copie settecentesche poiché sembra che gli originali andarono distrutti dalla tromba d’aria abbattutasi nel 1756 che: “….smosse solo un poco la cuppola del campanile, e gettò due pilastrelli laterali della stessa”).
Come s’è visto il campanile, dotato di ben tre campane, aveva già l’orologio, cosa insolita per quei tempi tanto che nei dintorni solo San Lazzaro ne possedeva uno.
Il coro e l’abside vennero rialzati ed ampliati nel 1696 ed è grazie a questi lavori che poi sarebbero risultati essere adatti tali e quali nella costruzione della successiva terza chiesa, l’attuale, che quindi ha ancora pressoché intatti il presbiterio e l’abside preesistenti, compresi gli stupendi stucchi del catino absidale e del soffitto del coro, che essendo stati realizzati nel primo Settecento, come afferma il Beltrame, non possono essere stati appositamente fatti per la terza chiesa sorta una quarantina d’anni dopo.
All’inizio del 1700 l’allora parroco don Andrea Bonetti operò alcuni importanti lavori all’interno della chiesa:
in quanto parroco reggente dal 1689 al 1736 innanzi tutto deve aver fatto fare gli stucchi che come s’è detto sono dell’inizio del Settecento;
il 15 Novembre 1714 commissionò allo scultore Giovanni Bonazza le due statue di San Marco e di San Daniele che nemmeno un anno dopo (4 Luglio 1715) erano già compiute;
affidò al tagliapietra Francesco Zanini detto Mangrande la costruzione degli altari della Madonna (1724) e di S. Giuseppe (1727) collocati al posto di quelli preesistenti (distrutti) dei Ss, Rocco e Sebastiano e di  S. Lucia;
diede sempre al Zanini l’incarico anche per i nuovi altari di  S. Lucia (1726) e dei Ss, Rocco e Sebastiano (1728) evidentemente sistemati altrove nella navata - probabilmente dove ancor ora si trovano - completi di pala (già esistente quella dei Ss. Rocco e Sebastiano, tela  cinquecentesca del pittore Pietro Damiani; nuova quella di S. Lucia commissionata nel 1728 al pittore padovano Giovanbattista Cromer).
Tutte le opere sopra citate trovarono collocazione con gli opportuni adattamenti nella successiva terza chiesa.
Da osservare che, dopo le modifiche volute da don Bonetti, la chiesa poco prima di essere demolita doveva disporre di ben sette altari, i tre vecchi costituiti dal maggiore e dai due posti ai suoi fianchi ed i quattro nuovi del Zanini, posti lungo i lati della navata.



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