Ospedale di San Daniele - Parrocchia di San Marco Ev

aggiornato il 24/02/2024
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Ospedale di San Daniele

La storia

L’ospedale di San Daniele


Nei primi anni del 1300 sorse a  Ponte di Brenta proprio nel cuore del borgo, attiguo alla chiesa, un “hospitale” intitolato a San Daniele, allo scopo di dare ospitalità ai viandanti, pellegrini e ammalati.
Il luogo viene citato per la prima volta in un testamento redatto dal notaio Pietro da Camin il 15 aprile 1330. Nel documento un certo Giacomo detto Rizzo da Ponte di Brenta (de contrada Pontis Brente Noente) manifesta la volontà di essere sepolto nella locale chiesa di San Marco, riservando allo scopo 100 denari piccoli e disponendo alcuni piccoli lasciti, tra i quali una somma di cinque denari a favore dell'ospedale di San Daniele.
Il testamento rappresenta un punto di riferimento temporale certo rispetto alla fondazione dell'ente e se si considera che dell’ospedale non esiste traccia nella decima papale del 1297 (Rationes decimaru) al cui pagamento furono sottoposte tutte le istituzioni religiose e assistenziali della penisola in proporzione al valore dei beni posseduti da ognuno di esse, è logico ritenere che l’ospedale di San Daniele sia stato fondato non prima del 1297 e non dopo il 1330, ipotizzandolo già in attività non più tardi dei primissimi anni del Trecento poiché in seguito si sentirà meno la necessità di istituire enti del genere per una loro ridotta utilità (si pensi al trasferimento della sede papale ad Avignone nel 1309, con il conseguente minor flusso di pellegrini verso Roma, ed all’arresto del movimento crociato che ridusse moltissimo gli spostamenti verso i luoghi sacri della cristianità).
E’ impossibile risalire con certezza a chi diede origine all’ospedale: una suggestiva ipotesi attribuirebbe la fondazione della struttura addirittura al famoso Enrico degli Scrovegni (1254 c.ca – 1336) che sappiamo aveva acquistato nel nostro territorio, all’inizio del secolo, 400 campi arativi e che era, come del resto altre importanti famiglie padovane, in grado di promuovere attività benefiche con finalità assistenziali come l'istituzione di un luogo d'accoglienza per pellegrini. Sul finire del Cinquecento si attribuì anche l'iniziativa al vescovo di Padova o alla famiglia Dolce di Venezia. Tuttavia sono solo supposizioni perché non esiste alcuna documentazione archivistica.

L’ospizio aveva oratorio ed orto propri ad uso dei malati. I suoi beni  erano amministrati dai Massari della confraternita di San Daniele, sotto l’autorità della “Fraglia della Fabbrica”, com’è dato a sapere dalla relazione del 27 giugno del 1587 di Nicolò Galerio, visitatore generale della diocesi padovana, in cui si afferma che fino al 1537 l'ospedale era governato appunto da due massari della citata confraternita. Costoro rendevano conto annualmente della loro gestione al parroco di Ponte di Brenta.
Nel 1537, però, lo scoppio di pesanti dissidi interni alla confraternita, fecero sì che si rinunciò alla diretta gestione dell'ospedale affidandola al comune di Padova, che dal 1539 provvide a eleggere dei priori perpetui scelti tra i notabili “di buona fama e condizione aggregati al Consiglio cittadino”. L’elezione del priore spettava al podestà cittadino ed a quattro deputati, secondo le regole stabilite dai capitoli. Girolamo Tosato fu l’ultimo massaro parrocchiale.
A sostenere la carica del primo priore comunale venne chiamato Marco Bagarotto (1539-63). A lui seguirono Alvise Savonarola (1563-78) durante la cui gestione l’istituzione arrivò nel 1572 a disporre di 12 letti, Filippo Vitaliani (1578-1582) e Girolamo Borromeo (1582-1588).
I capitoli vennero riformati una prima volta il 30 aprile 1588 per meglio disciplinare il raggio d'azione, il comportamento, le funzioni e le incombenze cui doveva sottostare l' amministratore dell'ente. L'emissione di nuovi regolamenti faceva seguito al preoccupante esito della visita ispettiva eseguita da una delegazione cittadina all'indomani della morte del priore Girolamo Borromeo per “veder lo stato in cui si ritrova l'hospitale”, durante la quale furono rinvenute “cinque lettiere desfornide (sfornite) con uno schiavinotto (coperta) rotto et uno pezzo di linzolo stracciato per ognuna”. Inoltre, a causa della completa incuria della cappellina, da anni non vi si celebravano messe nel giorno di S. Daniele (3 gennaio).
AI fine di frenare la decadenza dell'ospedale e ridonare dignità al luogo, lo stesso 30 aprile 1588 il podestà Giorgio Contarini, di concerto con i deputati, decise l'adozione di alcuni provvedimenti d'urgenza, tra i quali il ripristino dei letti nelle stanze d'accoglienza utilizzando le entrate dell’anno in corso, la nomina per un anno di un sovrintendente che garantisse il rispetto dei nuovi statuti e l'elezione del nuovo priore, al quale spettava l'obbligo di rendere conto annualmente al consiglio cittadino “dello scosso e dello speso” (di quanto riscosso e di quanto speso: cioè della contabilità). Risultò eletto priore il conte Antonio da Panego (1588-1607).

Tra le incombenze affidate al priore vi erano la nomina del custode, incaricato di gestire l'ospitalità e di curare la pulizia dei locali, la manutenzione ordinaria e straordinaria dello stabile, l'esecuzione annuale dell'inventario dei beni, la predisposizione di dieci lettiere da mantenere stabilmente, “otto da basso per gli uomini e due di sopra per le donne, fornite con la sua paglia, con el suo stramazzo sopra, cavazzale, paro 1 lenzoli e una schiavina per cadauna” e il controllo sulla regolare celebrazione nel giorno di S. Daniele di cinque messe solenni sull'altare della cappellina, “come si soleva anticamente”. Un ultimo decreto prevedeva per l'anno successivo la visita di due deputati per verificare l'effettiva applicazione delle disposizioni e, in caso d'inosservanza, riferire al podestà per l'eventuale rimozione del priore.
Non sappiamo fino a che punto furono osservate e fatte osservare tali disposizioni, ma la netta sensazione che emerge dai documenti è che appena le autorità cittadine iniziarono ad allentare il controllo, il malgoverno dell' ospedale riprese il sopravvento, giacché nella visita pastorale del 25 ottobre 1598 il vescovo Marco Cornaro sottolineava J'inagibilità della struttura, ridotta in pessimo stato a causa della negligente gestione priorale. Negli anni successivi le cose peggiorarono, tanto da costringere il priore da Panego a rinunciare all’incarico. Il 18 agosto 1607 i deputati cittadini si recarono a ispezionare l'ospedale, trovando le lettiere in cattivo stato stipate in un'unica stanza al piano terra, dove alloggiavano promiscuamente uomini e donne, conseguenza inevitabile della impraticabilità del piano superiore dovuta alle infiltrazioni piovane che avevano marcito il solaio gocciolando nelle camere. Fu pertanto disposto di “acconciare li coverti”, comperare nuove lettiere, biancheria e coperte, e ripristinare le stanze per le donne al piano di sopra, utilizzando gli avanzi di gestione degli anni precedenti.
L'elezione del nuovo priore Giovanni Sala (1607-1631) portò un radicale cambiamento nella gestione dell'ospedale, sia in termini di recupero d'efficienza, sia sotto il profilo della manutenzione delle strutture. La successiva visita vescovile di Marco Cornaro (27 agosto 1613) rilevava, infatti, la presenza di otto lettiere in buono stato complete di materassi e coperte e l’osservanza della ricorrenza di S. Daniele, celebrata con la dovuta solennità. Le rendite dell'ospedale ammontavano all'epoca a una quarantina di ducati annui, derivanti dalla locazione di sedici campi, suddivisi in diversi appezzamenti posti a Noventa, Torre, Ponte di Brenta, Peraga, Perarolo e Campolongo. Si trattava di un'antica dotazione patrimoniale, forse conferita dal fondatore e rimasta sostanzialmente invariata fino alla soppressione dell'ospedale, documentata per la prima volta il l7 febbraio 1463 nella dichiarazione d'estimo presentata dal massaro Antonio Giovanni Brunelli, in rappresentanza della Confraternita di San Daniele.
I deputati cittadini fecero nuovamente la loro comparsa a Ponte di Brenta nel 1631, in piena epidemia di peste, per esaminare lo stato degli immobili all'indomani della morte del priore e avviare le procedure per l'elezione del successore, disponendo che tutti gli avanzi di gestione realizzati dall' ospedale negli anni precedenti fossero impiegati a beneficio dei poveri di Ponte di Brenta “per l'avanzata del mal contagioso”. Benché l'amministrazione dell' ospedale fosse ormai saldamente nelle mani del comune padovano, i parroci di Ponte di Brenta non mancarono mai di segnalare ai deputati cittadini malfunzionamenti o abusi, anche se spesso tali segnalazioni non avevano alcun esito. Nel 1656, ad esempio, don Giovanni Bartolomietti evidenziava la precarietà delle strutture dell' ospedale (“altare contra le Costituzioni, letti senza niuna pietà, coperto mal in ordine”) affermando di aver informato della situazione le autorità civiche senza aver ottenuto un tangibile riscontro.

Alla morte del Sala, la carica passò nelle mani del priore Ottaviano Pellegrini (1631-1652) cui succedette il priore Pellegrino Refatto, eletto nel 1652. Morto quest’ultimo nel 1666, i deputati si recarono a Ponte di Brenta per eleggere quale successore Gaspare Gaio (1666-1688) e con l’occasione disposero interventi di ristrutturazione del tetto, dei serramenti e degli scalini a spese delle casse comunali, nonché l'acquisto di sei nuove lettiere con dotazione completa di materassi, coperte e lenzuola.
La carica di priore non era di grande attrattiva (il Refatto, ad esempio, era stato eletto in qualità di unico candidato, a testimonianza del fatto che tale ruolo era ben poco ambito, anche per la modesta remunerazione che prevedeva la consegna di 18 staia di frumento annue a titolo di onorario) e ciò si traduceva in un perenne malgoverno della struttura, spesso fatiscente, in prolungate assenze del priore, che talvolta non si vedeva per mesi, e in una gestione deficitaria lasciata nelle mani del custode, al quale era richiesto di pulire le stanze, chiudere le porte e offrire alloggio a poveri e pellegrini per un massimo di tre notti “dando da dormire e comodità da far focho, latrina, secchio et altre bagattille”, con assoluto divieto di ospitare altre persone. Oltre all'alloggio il custode poteva contare sui proventi offerti dalla coltivazione di un campo posto a Peraga e sui prodotti dell'orto dell'ospedale.
Dal 1632 e per oltre un secolo la custodia della struttura fu affidata alla locale famiglia Bottaro, prima con Alvise nominato direttamente dal provveditore Alvise Valaresso, poi con alcuni suoi discendenti che evidentemente riscuotevano la fiducia delle autorità cittadine, benché sorpresi talvolta a compiere piccoli abusi. Nel 1728, ad esempio, la custode Maria Bottaro s’era presa la libertà di affittare una camera del piano superiore a una vedova che, in palese violazione degli statuti, vi aveva trasferito anche la poca mobilia di casa, per cui i deputati decretarono l'immediato sfratto dell'inquilina e l'incameramento dell'affitto da parte del priore. Nel 1765, invece, i deputati trovarono le camere al piano superiore occupate da telai per la fabbrica di panni, per cui disposero l'immediato sgombero delle stanze e il loro ripristino come alloggi femminili, minacciando il custode di licenziamento in caso di riscontrati nuovi abusi. Alla morte del Gaio, il custode Zamaria Bottaro interrogato dai deputati ammise che “da almeno 25 anni non venivano sostituiti i stramazzi, le schiavine da 8 anni e le lenzuola da 10” e che la recinzione dell'orto era crollata per una lunghezza di 15 piedi. Gli ispettori rilevarono anche inadempienze fiscali per centinaia di lire d'imposte non pagate, per cui posero sotto sequestro gli affitti riscossi dall'ospedale.

Il malgoverno dell’ospedale raggiunse, tuttavia, il suo apice proprio nei decenni successivi,  complice la totale ignavia dei priori che si succedettero. Ad esempio il priore Antonio Gaio (1688-1707), fratello del precedente, risultò autore di malversazioni e frodi contabili talmente gravi che l'ingente debito accumulato fu rateizzato ed estinto completamente dai suoi eredi soltanto nel 1741.
Dopo la morte del priore Daniele Camposampiero (1707-1726) furono emanati i nuovi capitoli che apportarono piccoli aggiornamenti al regolamento del 1588. In tale occasione la capienza dell'ospedale fu ridotta definitivamente a cinque-sei letti.
Durante il priorato di Gaspare Orsato (1726-1734) avvenne, invece, un'importante svolta nella gestione dell'ospedale: dopo aver riscontrato le pessime condizioni degli alloggi e dei letti e la totale incuria dell'orto, il 30 marzo 1728 i deputati incaricarono il parroco pontesano Andrea Bonetti, molto sensibile alle problematiche sociali, di vegliare affinché non accadessero scandali nell'ospedale e venisse mantenuta la separazione fra uomini e donne. Tale delega garantiva la presenza costante sul posto di un fiduciario e il controllo sulla custodia dell' ospedale. Certo è che sotto la supervisione del prelato venne avviata una serie di lavori senza precedenti sulle strutture ospedaliere, furono riparate suppellettili e biancheria e rinnovata la dotazione di utensili d'uso comune e di arredi sacri per l'altare.Nel 1736 lo stesso parroco fece costruire in canonica uno stanzino comunicante con l'ospedale affinché un suo incaricato potesse rifocillare i pellegrini alloggiati.
Negli anni successivi i parroci, forti dell’autorità acquisita, dell'assenza del priore e della soggezione che incutevano nei custodi, qualche volta si arrogarono il diritto di decidere chi far ospitare nell'ospedale, tanto che alcuni poveri pretendevano con violenza di entrare facendosi scudo del consenso del parroco. Nel 1796, don Miotti, non sapendo in quale altro modo sistemare un caso particolare, fece pressioni sul custode affinché accogliesse nella struttura, come si legge in una relazione, una “donna putrida e ammalata, la quale vi stette per tre mesi finché morì di male attaccatizio (scabbia), per cui convenne abbrucciare lo stramazzo, il pagliericcio e le coperte”.
Quanto accaduto costrinse i deputati a emanare una nuova norma  con la quale riaffermarono il divieto di ospitare vagabondi, persone equivoche e poveri del paese “com'era invalso con pernicioso abuso”, permettendo l'alloggio soltanto a pellegrini in apparenti buone condizioni di salute. Tali disposizioni furono peraltro vanificate dagli eventi che di lì a poco portarono alla soppressione dell'ospedale. In seguito all'occupazione della città da parte delle truppe francesi, la neo costituita municipalità democratica sollevò dall'incarico l'ultimo priore Giovanni Mariani (1788-1797), affidando dal primo maggio 1797 la gestione dell'ospedale alla Commissione municipale per gli affari ecclesiastici. Il successivo 27 novembre il nosocomio cittadino di San Francesco Grande prendeva possesso dei beni e delle entrate dell’ospedale di San Daniele e di altri simili organismi, già confiscati dal governo democratico, che considerava  eccessivamente oneroso il mantenimento di tali strutture in relazione all'attività svolta. In effetti, all'atto della soppressione, la contabilità dell'ospedale di Ponte di Brenta si presentava  molto negativa, contando pluriennali morosità nell'incasso di alcuni livelli e un credito arretrato con gli affittuari all’incirca di 600 lire, a fronte di una rendita annua complessiva di 432 lire.

Il nuovo ospedale Giustinianeo aperto nel 1798, sostituì l’ospedale di San Francesco Grande assorbendone proprietà e rendite.
L'ospedale cittadino mantenne il possesso del fabbricato dell’ormai ex ospedale di San Daniele fino al 1874, cambiandone la destinazione d'uso in "casa con tintoria", mentre l'altare della cappellina, in pietra di Costozza intarsiata, fu trasferito nel dicembre 1808 nella sacrestia dell'adiacente chiesa parrocchiale per evitarne la profanazione.
L'immobile che attualmente occupa l’area dell'ospedale, sito al civico 274 di via San Marco, pur completamente trasformato, ricalca la pianta settecentesca del complesso, compresa la parte retrostante adibita a giardino, cinta da un'antica muraglia molto rimaneggiata nel tempo, nella quale è inserito un antico pozzo,  anch’esso parecchio alterato,  che un  tempo doveva soddisfare l'approvvigionamento idrico sia dell'ospedale sia dell'adiacente canonica, ultima testimonianza di un angolo di Ponte di Brenta ormai scomparso, che ha vissuto cinque secoli di storia.


L'antico pozzo preso dal cortile della canonica.

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